venerdì 30 marzo 2012

La negletta lingua del "sì"

Sabato scorso ascoltavo, prima del gr1 delle sette, una trasmissione che credo si chiami "voci dal mondo".
Era intervistata una signora, rappresentante della camera di commercio a Singapore e che, parlando a mitraglia, ha sostanzialmente detto:
Contattarci è un must per le imprese italiane che vogliono un plas (che sarebbe il latinissimo e quindi nostrano "plus" ma pronunciato "plas" sembra essere più in linea con la tecnocrazia imperante e ignorante) per fare business a Singapore in modo safe. Grazie a noi possono avere un set-up per il loro coming anche step by step.
Come si dice in questi casi ?
Una parola (di commento) è poco, due diventano troppe.

5 commenti:

claudio ha detto...

Concordo in parte con te Massimo anche se è vero che alcuni vocaboli anglosassoni rendono "meglio" in un certo senso e pure io li uso (bada bene non ne abuso). Il vero problema però, diciamolo, è che spesso anche quando qualcuno vuole esprimersi in italiano, parlando (Tv) o scrivendo (giornali), non lo fa correttamente!

massimo p. ha detto...

alcontraio di cladio io concordo con te non in parte ma al 100%
l'esterofilia nostrana è talmente rozza ed ignorante, talmente italica da lasciare sconcertati.
andate a vedere cosa succede in Francia e Spagna dove, tanto per fare qualche esempio del cavolo preso a caso, la NATO si chiama OTAN e il mouse si chiama raton (in spagna) e riton (in francia)
e in islanda, dove perfino neologismi ottocenteschi e comunque derivati dal greco vengono rifiutati perchè non conformi alla lingua norrena medievale che viene ancora oggi parlata ? (ad es. telefono di dice "simi", che è la parola islandese che vuol dire "filo").

Del resto lo vedo tutti i giorni nel mondo bancario, fra target, mission, credit protection insurance, ecc.
Ma è mai possibile che l'ufficio contenzioso l'abbiano ridenominato "non performing loans" (che vuor dì ??) un altro è l'ufficio settlement (che vuor dì ?) e l'assicurazione sui mutui si chiema credit protection insurance, detta cpi (ma pronunciata si pi ai) ? E la Banca Intesa anni fa, quandi si chiamava INTESA BCI obbligava (sic !) i propri dipendenti a rispondere al telefono: "pronto, intesa bi si ai).

E poi mi pare che al parlamento della Repubblica Italiana sia stato introdotto il "question time" (o sbaglio ???)

E tutti coloro che chiamano i figli con improbabili nomi stranieri quando esistono perfettamente i loro omologhi italiani ???

Massimo F. ha detto...

E' ovvio che qualche parola straniera in un discorso o in un testo ci può stare. Ma come ha scritto Massimo, adesso esageriamo. Ed è colpa anche di chi, come Draghi e Monti, invece di parlare italiano nei convegni, parla inglese, con il ridicolo di costringere i telegiornali a doppiarlo. Di più e di peggio. Parlare inglese ai convegni è indice di servilismo e di piaggeria e se questo viene fatto da chi dovrebbe rappresentare l'Italia, getta su tutti noi una immagine da sudditi. Del resto cosa possiamo aspettarci da chi con l'euro, Maastricht, Lisbona e il fiscal compact ha progrssivamente svenduto la nostra Sovranità (che inizia con il battere moneta in proprio e con il valorizzare la nostra Lingua) ?

claudio ha detto...

Massimo secondo me parlare in inglese a un convegno non è indice di servilismo, semmai di buona cultura (conoscenza). L'inglese lo parlano tutti al mondo, l'italiano no (il perché lo dice la storia). E se si può parlare di qualcosa direttamente con l'interlocutore, senza l'interprete che appunto nel tradurre "interpreta", tanto di guadagnato.
Perché non si sforzano gli stranieri? Perché dovrebbero: l'italiano lo parliamo solo noi (mediamente maluccio). Altra storia il latino. Quello sì che lo studiano (bene) in tutte le più grandi università del mondo. Ma è roba di secoli fa.
E poi tutto questo discorso ruota attorno al fatto che all'estero non contiamo più niente da un pezzo, come si vede dal fatto che perfino gli indiani continuano a prenderci per i fondelli.
Ci rimane la buona cucina. E il sole...

Massimo F. ha detto...

Claudio, quello che scrivi mi trova concorde nelle occasioni dei colloqui bilaterali, ma nei convegni e riunioni pubbliche internazionali i testi dei discorsi/interventi/relazioni sono preventivamente depositati, tradotti nelle varie lingue dei partecipante e dei giornalisti e distribuiti. Parlare in una lingua diversa dalla propria diventa quindi un futile esibizionismo che, nel nostro caso, si trasforma in una dichiarazione di sudditanza. Del resto individui come Draghi e Monti, ben differentemente ad esempio dei Trichet e dei commissari europei delle altre nazioni, una volta ottenuto un incarico internazionale si sono completamente spogliati del Tricolore, così che mentre gli altri facevano gli interessi delle proprie nazioni, i "nostri" (unica eccezione Frattini) si comportano come l'arbitro che deve arbitrare la partita della squadra della propria città. Non lamentiamoci, quindi, se anche gli indiani ci prendono per i fondelli ... :-)