A me piacciono i gialli e i polizieschi.
Praticamente mi piacciono tutti, a prescindere dalla loro forma, sia in letteratura che nella trasposizione cinetelevisiva.
Preferisco i classici, da Rex Stout ad Agatha Christie fino al nostro Augusto De Angelis, ma non disdegno i moderni telefilm inglesi, più ancora di quelli americani o scandinavi.
Romanzi e telecineproduzioni ci raccontano anche spaccati di vita locale.
Ad esempio l'ultima stagione di Ncis New Orleans (meritatamente soppressa) era imbottita di politicamente corretto e di mascherine per il covid.
La società americana appare per quello che abbiamo imparato a conoscere, infantile, guascona, coraggiosa.
Quella inglese meditativa, organizzata, snob.
Quella scandinava mi appare triste, sordida, decadente o, meglio decaduta.
E decaduta da lungo tempo, se la letteratura e la filmografia ne rappresentano, con un po' di ritardo la realtà.
Da quel che si legge e si vede tanti aspetti sembrano assodati, dalla miseria di vivere in appartamenti piccoli e sempre alle prese con problemi finanziari, fino alla accettazione dei più sordidi vizi come se fossero un accompagnamento naturale della vita quotidiana.
I gialli scandinavi hanno una trama fondata su una idea valida, ma poi sviluppano pagine su pagine nella descrizione dei vizi della loro società, rappresentati dai protagonisti, sia queli che dovrebbero essere i "buoni", che i "cattivi", perdendo spesso la nettezza della linea di demarcazione tra gli uni e gli altri.
E non è solo Svezia o Norvegia.
In ultimo l'ho ritrovato in una autrice danese, Katrine Engberg e in un telefim finlandese, Maria Kallio detective.
Un approccio triste e disfattista ad una vita grama che non incute certo all'ottimismo, a reagire alle avversità, ma anche alla crimminalità.
Da adolescente avevo (penso: avevamo) il mito della Scandinavia.
Un mito decisamente sopravvalutato, forse mai stato corrispondente alla realtà, ormai, comunque, sgretolato, come i templi degli Antichi Dei.