Nella nostra infanzia una giovanissima Rita Pavone si chiedeva perchè la domenica la si lasciava sempre sola per andare a vedere la partita di pallone.
Da allora molte cose sono cambiate.
La partita di pallone non si gioca più solo alla domenica, ma anche al sabato, all’ora di pranzo della domenica, magari al lunedì o al venerdì, mentre nei giorni centrali della settimana è il turno delle coppe europee che una volta erano così poche che ogni volta diventavano un evento.
Che io preferisca il vecchio sistema al nuovo è ovvio, ma sarebbe assurdo combattere contro i mulini a vento.
Purtroppo domenica scorsa, mentre ci accingevamo a gustarci la prima di campionato con il posticipo serale di Bologna-Roma, l’Italia è rimasta senza pallone, con gli stadi desolatamente vuoti.
I calciatori hanno scioperato.
Due gli argomenti che hanno provocato la rottura tra le parti.
Il trattamento ai “fuori rosa” e la ventilata addizionale irpef.
Che i calciatori scioperino fa sorridere amaro.
Ma ne hanno diritto perchè, stoltamente, quando hanno trasformato le società di calcio in spa (e poi rincarato la dose con l’ammissione in borsa e la possibilità della finalità di lucro) i calciatori, anche quelli più pagati, sono a tutti gli effetti lavoratori dipendenti, con un loro contratto collettivo e con tutti i diritti del caso.
Si potrebbe dire che fanno la bella vita, ma anche che hanno una carriera limitata nel tempo e che non tutti guadagnano le iperboliche cifre che leggiamo sui giornali per i migliori.
Resta il fatto che la resistenza delle società è tardiva e destinata ad essere sconfitta.
Se, infatti, i contratti dei calciatori prevedono la retribuzione fondata su una cifra netta, di diritto ogni alterazione delle aliquote fiscali deve essere posta in capo alle società.
Peggio per loro se hanno accettato tali condizioni, come è stato peggio per l’industria italiana (e per tutta la nostra economia) quando Agnelli, nei primi anni settanta, calò le braghe davanti alla triplice sindacale.
Pacta sunt servanda.
Diverso il discorso dei “fuori rosa”.
Un lavoratore dipendente non può interferire sull’organizzazione aziendale, in questo caso sulla formazione e sugli allenamenti.
Se poi consideriamo quanto siano svelti di lingua certi “campioni”, non si può negare alle società il diritto di esercitare il potere disciplinare, come in qualsiasi azienda.
Sarebbe quindi giusto se le società pagassero l’eventuale addizionale irpef (che potrebbe anche non esserci più nel testo definitivo), ma conservassero la possibilità di gestire i “fuori rosa”.
Scommettiamo però che si accorderanno sul contrario ?
Comunque sia, come ad ogni inizio Campionato:
Da allora molte cose sono cambiate.
La partita di pallone non si gioca più solo alla domenica, ma anche al sabato, all’ora di pranzo della domenica, magari al lunedì o al venerdì, mentre nei giorni centrali della settimana è il turno delle coppe europee che una volta erano così poche che ogni volta diventavano un evento.
Che io preferisca il vecchio sistema al nuovo è ovvio, ma sarebbe assurdo combattere contro i mulini a vento.
Purtroppo domenica scorsa, mentre ci accingevamo a gustarci la prima di campionato con il posticipo serale di Bologna-Roma, l’Italia è rimasta senza pallone, con gli stadi desolatamente vuoti.
I calciatori hanno scioperato.
Due gli argomenti che hanno provocato la rottura tra le parti.
Il trattamento ai “fuori rosa” e la ventilata addizionale irpef.
Che i calciatori scioperino fa sorridere amaro.
Ma ne hanno diritto perchè, stoltamente, quando hanno trasformato le società di calcio in spa (e poi rincarato la dose con l’ammissione in borsa e la possibilità della finalità di lucro) i calciatori, anche quelli più pagati, sono a tutti gli effetti lavoratori dipendenti, con un loro contratto collettivo e con tutti i diritti del caso.
Si potrebbe dire che fanno la bella vita, ma anche che hanno una carriera limitata nel tempo e che non tutti guadagnano le iperboliche cifre che leggiamo sui giornali per i migliori.
Resta il fatto che la resistenza delle società è tardiva e destinata ad essere sconfitta.
Se, infatti, i contratti dei calciatori prevedono la retribuzione fondata su una cifra netta, di diritto ogni alterazione delle aliquote fiscali deve essere posta in capo alle società.
Peggio per loro se hanno accettato tali condizioni, come è stato peggio per l’industria italiana (e per tutta la nostra economia) quando Agnelli, nei primi anni settanta, calò le braghe davanti alla triplice sindacale.
Pacta sunt servanda.
Diverso il discorso dei “fuori rosa”.
Un lavoratore dipendente non può interferire sull’organizzazione aziendale, in questo caso sulla formazione e sugli allenamenti.
Se poi consideriamo quanto siano svelti di lingua certi “campioni”, non si può negare alle società il diritto di esercitare il potere disciplinare, come in qualsiasi azienda.
Sarebbe quindi giusto se le società pagassero l’eventuale addizionale irpef (che potrebbe anche non esserci più nel testo definitivo), ma conservassero la possibilità di gestire i “fuori rosa”.
Scommettiamo però che si accorderanno sul contrario ?
Comunque sia, come ad ogni inizio Campionato:
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